La piscina privata può diventare fonte di reddito ma esistono regole precise da rispettare.
Sulla scia di servizi come Airbnb e Booking si sta diffondendo anche in Italia la condivisione delle piscine permettendo così alle famiglie e alle strutture ricettive, soprattutto a quelle piccole, di rientrare, anche se in piccola parte, degli investimenti fatti nella costruzione della piscina. La questione è interessante e anche piacevole (la piscina favorisce le relazioni interpersonali) e, come detto, può rappresentare anche una forma di reddito, ma è bene sapere cosa va fatto per evitare spiacevoli conseguenze, anche di natura economica e legale.
Oltre agli adempimenti fiscali che sono ben riassunti in questo articolo pubblicato su LALEGGEPERTUTTI.IT , ne esistono anche molti di natura impiantistica e sanitaria e qui vogliamo occuparci di questi.
Le piscine non sono tutte uguali. La grossa differenza, che poi è ciò che interessa a chi le controlla, è ciò che c’è sotto (l’impianto di trattamento e disinfezione dell’acqua) e che c’è a corredo della piscina (i documenti e le attrezzature per le verifiche sulla salubrità).
Per questa ragione, fin dal momento della loro progettazione, le piscine vengono classificate in base alla loro destinazione d’uso che, seppur leggermente differenti a seconda della Regione, possiamo così riassumere:
A1: piscine pubbliche (pago il biglietto ed entro)
A2: piscine ad uso collettivo (riservate ai soli ospiti di strutture turistico-ricettive, palestre, circoli, ecc.)
B: piscine condominiali
D: piscine private
A nostro parere nel momento in cui viene concesso l’uso della piscina ad una persona che non sta soggiornando nella struttura, oltretutto dietro pagamento, la piscina diventa di fatto una A1: ho pagato e posso entrare.
Qui però nasce il problema: le piscine di categoria A1 devono avere caratteristiche ben precise. Tanto per cominciare:
La vostra piscina ha tutte queste caratteristiche ? Se la risposta è SI, potete aprirla agli estranei a pagamento, se è NO, non potete farlo.
L’idea della condivisione delle piscine è molto bella e ci piacerebbe poterla appoggiare appieno. Esistono però leggi e norme, diverse da regione a regione, che vanno conosciute e rispettate. Le probabilità di controlli nelle piscine private sono minime, questo lo sappiamo, finchè… non avviene un incidente (anche una semplice slogatura di un piede scendendo da una scaletta non a norma o un’irritazione cutanea o oculare per un errata disinfezione dell’acqua) e quel giorno anche il vostro assicuratore probabilmente si dimenticherà di voi!
Prima di decidere di aprire a esterni la vostra piscina, privata o turistico ricettiva che sia, confrontatevi con esperti che sappiano esporvi la situazione con sincerità e chiarezza e prendete le precauzioni necessarie per ridurre il più possibile i rischi. Se volete noi ci siamo!
Per contattarci: info@professioneacqua.it – tel.0376854931
3 commenti. Nuovo commento
VERAMENTE molto utile e chiaro. Grazie
Salve a tutti.
Avendo un minimo di competenze giuridiche, mi permetto di eccepire che il passaggio da piscina ad uso collettivo (a2) a pubblica (a1) non può avvenire tout-court come erroneamente sostenuto in questo articolo.
Il Consiglio di Stato ha infatti affermato che “…affinché un’area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessaria oltreché l’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse…” (Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 2012 n.728). Ciò significa che può considerarsi “pubblica” solo la piscina il cui ingresso sia consentito ad un numero indefinito di persone indeterminate e non la piscina nella quale è consentito l’accesso ad un numero ridotto di persone sottoposte all’approvazione del soggetto titolare della piscina.
L’utilizzo della piscina tramite le piattaforme di poolsharing implica la determinazione non solo del numero, ma anche della tipologia di ospiti ammessi (famiglie, coppie, over 65, lgbt, ecc.). Questo, unitamente alla totale libertà di rifiutare o annullare la prenotazione, opera una discriminazione che rende insuscettibile di applicazione la definizione di “pubblica” alle piscine in questione, in quanto rende il servizio fruibile solo da una collettività predeterminata di persone, sempre e comunque sottoposta alla discrezionalità dell’host.
Per ciò che concerne le piscine “turistico-ricettive”, “ad uso collettivo”, “destinate ad utenza pubblica” (o che dir si voglia, a seconda della classificazione data dalla legge regionale presa in considerazione, dal recepimento dell’Accordo Stato-Regioni del 2003 o dell’Accordo Interregionale del 2004) va poi considerato che tali piscine vengono classificate facendo esplicito riferimento all’attività principale cui è adibita la struttura, con ciò lasciando spazio ad una fornitura dei servizi tipici del c.d. “contratto d’albergo” anche disgiunta dall’attività principale di alloggio.
Infatti, laddove le norme facciano riferimento alle figure degli “ospiti” e dei “clienti”, per tali si devono intendere i soggetti che usufruiscono dei servizi messi a disposizione dalla struttura ricettiva anche indipendentemente dal pernottamento (infatti anche chi usufruisce di servizi diversi dall’alloggio ha accesso alla piscina dell’hotel: si pensi agli invitati di un banchetto o ai clienti del bar, del ristorante, delle sale congressi, della SPA e di altri servizi ad uso non abitativo).
Nella realtà dei fatti, in forza dell’assenza di espliciti divieti, esistono già strutture che accettano ospiti paganti in piscina senza problemi di sorta (la pratica è diffusa in svariati hotel lungo la penisola), così come esistono strutture che si sottraggono all’obbligo della vaschetta lavapiedi o della presenza costante dell’assistente bagnanti (la cui mancanza dovrebbe precludere l’accesso in piscina anche agli alloggiati).
Con riferimento ai privati che desiderano mettere a disposizione la piscina, non sussistono divieti di sorta purché siano rispettati i requisiti della c.d. “prestazione occasionale” (assenza di abitualità, professionalità, continuità e coordinazione) e i relativi limiti fiscali e previdenziali imposti dalle leggi in vigore.
Al di là degli aspetti tecnico-giuridici, il problema è che in Italia manca una normativa chiara, completa e certa (ci sono regioni che non hanno nemmeno trasfuso in legge l’Accordo Stato-Regioni, impedendogli così di assumere i caratteri di obbligatorietà propri dell’atto avente forma di legge. A tal proposito, sottolineo anche che le normative UNI non hanno carattere vincolante se non richiamate da atti aventi valore di legge).
La risalente, frammentaria ed insufficiente tipizzazione legale, pensata prima del manifestarsi delle nuove tecnologie, viene strategicamente utilizzata contro l’innovazione invece che come stimolo per legiferare e rinnovare un settore fermo da decenni.
Piattaforme di poolsharing si stanno diffondendo in tutto il mondo (ci sono piattaforme americane, spagnole e addirittura maltesi) con il supporto delle associazioni di settore, volenterose di dare aria fresca al settore piscine innovandolo tecnologicamente e normativamente per favorirne la crescita in linea con gli sviluppi moderni.
Posso dire con orgoglio che la prima piattaforma andata online è made in Italy, ma se si continua a limitarsi ad interpretazioni parziali che non prendono in considerazione l’ordinamento nel suo complesso, perderemo anche questo treno.
Salve a tutti.
Avendo un minimo di competenze giuridiche, mi permetto di eccepire che il passaggio da piscina ad uso collettivo (a2) a pubblica (a1) non può avvenire tout-court come erroneamente sostenuto in questo articolo.
Il Consiglio di Stato ha infatti affermato che “…affinché un’area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessaria oltreché l’intrinseca idoneità del bene, che l’uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse…” (Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 2012 n.728). Ciò significa che può considerarsi “pubblica” solo la piscina il cui ingresso sia consentito ad un numero indefinito di persone indeterminate e non la piscina nella quale è consentito l’accesso ad un numero ridotto di persone sottoposte all’approvazione del soggetto titolare della piscina.
L’utilizzo della piscina tramite le piattaforme di poolsharing implica la determinazione non solo del numero, ma anche della tipologia di ospiti ammessi (famiglie, coppie, over 65, lgbt, ecc.). Questo, unitamente alla totale libertà di rifiutare o annullare la prenotazione, opera una discriminazione che rende insuscettibile di applicazione la definizione di “pubblica” alle piscine in questione, in quanto rende il servizio fruibile solo da una collettività predeterminata di persone, sempre e comunque sottoposta alla discrezionalità dell’host.
Per ciò che concerne le piscine “turistico-ricettive”, “ad uso collettivo”, “destinate ad utenza pubblica” (o che dir si voglia, a seconda della classificazione data dalla legge regionale presa in considerazione, dal recepimento dell’Accordo Stato-Regioni del 2003 o dell’Accordo Interregionale del 2004) va poi considerato che tali piscine vengono classificate facendo esplicito riferimento all’attività principale cui è adibita la struttura, con ciò lasciando spazio ad una fornitura dei servizi tipici del c.d. “contratto d’albergo” anche disgiunta dall’attività principale di alloggio.
Infatti, laddove le norme facciano riferimento alle figure degli “ospiti” e dei “clienti”, per tali si devono intendere i soggetti che usufruiscono dei servizi messi a disposizione dalla struttura ricettiva anche indipendentemente dal pernottamento (anche chi usufruisce di servizi diversi dall’alloggio ha spesso accesso alla piscina dell’hotel: si pensi agli invitati di un banchetto o ai clienti del bar, del ristorante, delle sale congressi, della SPA e di altri servizi ad uso non abitativo).
Nella realtà dei fatti, in forza dell’assenza di espliciti divieti, esistono già strutture che accettano ospiti paganti in piscina senza problemi di sorta (la pratica è diffusa in svariati hotel lungo la penisola), così come esistono strutture che si sottraggono all’obbligo della vaschetta lavapiedi o della presenza costante dell’assistente bagnanti (la cui mancanza dovrebbe precludere l’accesso in piscina anche agli alloggiati).
Con riferimento ai privati che desiderano mettere a disposizione la piscina, non sussistono divieti di sorta purché siano rispettati i requisiti della c.d. “prestazione occasionale” (assenza di abitualità, professionalità, continuità e coordinazione) e i relativi limiti fiscali e previdenziali imposti dalle leggi in vigore.
Al di là degli aspetti tecnico-giuridici, il problema è che in Italia manca una normativa chiara, completa e certa (ci sono regioni che non hanno nemmeno trasfuso in legge l’Accordo Stato-Regioni, impedendogli così di assumere i caratteri di obbligatorietà propri dell’atto avente forma di legge. A tal proposito, sottolineo anche che le normative UNI non hanno carattere vincolante se non richiamate da atti aventi valore di legge).
La risalente, frammentaria ed insufficiente tipizzazione legale, pensata prima del manifestarsi delle nuove tecnologie, viene strategicamente utilizzata contro l’innovazione invece che come stimolo per legiferare e rinnovare un settore fermo da decenni.
Piattaforme di poolsharing si stanno diffondendo in tutto il mondo (ci sono piattaforme americane, spagnole e addirittura maltesi) con il supporto delle associazioni di settore, volenterose di dare aria fresca al settore piscine innovandolo tecnologicamente e normativamente per favorirne la crescita in linea con gli sviluppi moderni.
Posso dire con orgoglio che la prima piattaforma andata online è made in Italy, ma se si continua a limitarsi ad interpretazioni parziali che non prendono in considerazione l’ordinamento nel suo complesso, perderemo anche questo treno.